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La paura di Giorgio Gaber.

Non dimentico la sorpresa, dopo la vittoria del penultimo governo, tornando a casa una sera e trovando tutti gli accessi al quartiere chiusi, transennati, intorno alla piazza principale. Polizia e gente dentro e fuori, nessun perché. Calma piatta e circospetta, ho girato in tondo, cercando un varco. Poi, la porta di casa alle spalle, nel mio intimo frugando e rifrugando, sola.

Da quel giorno per quattro anni un’insinuata miseria, infima e psicologica, tra gli abitanti del paese. Sguardi schivi per strada e sui mezzi, cellulari al posto di parole tra gli umani, affiancati e silenziosi, irriconoscibili, ovunque. Rabbia implosa sotterranea, aliti di rancore, compiaciuti bagliori di disprezzo. Annusarsi da lontano e continuo misurarsi.

Eserciti di malpagati troll contro canali non allineati; tutto un cercarsi in rete, per sapere. Ritornelli in codice di sincopato rap e trasmissioni clandestine in democrazia, mentre la povertà avanzava inesorabile, fallivano fabbriche, chiudevano negozi. Al ritmo di una facile speculazione finanziaria fiorivano mendicanti puzzolenti senza tetto, materassi e famiglie a cielo aperto.

Infiltrate all’occorrenza, manifestazioni che iniziavano pacifiche finivano violente repressioni. Motopoliziotti blindati investivano personecorpi; gaspeperoncino sparato negli occhi di vecchi, sulla soglia di casa. Un morto ammazzato alle spalle e un autoaffogato al fiume, rimangono, senza risposta.

Alla fine, perse loro le elezioni, scomparse le transenne, ci siamo ritrovati noi.
Ma resta la crepa subdola dell’individualismo estremo. Camminiamo sul ghiaccio incrinato di un abisso senza fondo.

(Il pezzo di Gaber citato nel titolo si trova facilmente su you tube)

(5 maggio 2021)

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